Scoperta sorprendente: alti livelli di proteina tau nei neonati potrebbero rivelare nuovi aspetti dell’Alzheimer

Uno studio dell’Università di Gothenburg rivela che i neonati hanno livelli di proteina tau superiori rispetto agli adulti e ai pazienti con Alzheimer, suggerendo un ruolo cruciale nello sviluppo cerebrale.
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Un recente studio condotto dall’Università di Gothenburg, in Svezia, ha messo in luce una scoperta inattesa riguardo alla proteina tau, comunemente associata alla malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno rilevato che i neonati presentano livelli significativamente più elevati di questa proteina rispetto agli adulti e ai pazienti affetti da Alzheimer. Questa ricerca, pubblicata sulla rivista Brain Communications, solleva interrogativi importanti sul ruolo della tau nel cervello in via di sviluppo.

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La proteina tau e il suo legame con l’Alzheimer

La proteina tau è fondamentale per il corretto funzionamento dei neuroni. Essa stabilizza le strutture interne delle cellule nervose e contribuisce al mantenimento della loro integrità. Tuttavia, quando la tau subisce un processo chimico noto come iperfosforilazione, perde la sua funzionalità normale. In questa forma alterata , tende a aggregarsi formando grovigli neurofibrillari all’interno dei neuroni; questo fenomeno è uno dei segni distintivi della malattia di Alzheimer.

I grovigli neurofibrillari si accompagnano spesso alle placche di beta-amiloide nel cervello degli individui affetti da Alzheimer. Questi due elementi sono considerati tra i principali processi patologici che caratterizzano la malattia e sono stati oggetto di numerosi studi negli ultimi anni per comprendere meglio le dinamiche che portano alla degenerazione neuronale.

I risultati sorprendenti sui neonati

Nel nuovo studio svedese sono stati analizzati i livelli plasmatici di p-tau in 462 soggetti: neonati a termine e prematuri, adulti sani e pazienti con diagnosi accertata di Alzheimer. I risultati hanno mostrato che i neonati presentavano concentrazioni notevolmente superiori rispetto agli altri gruppi esaminati; in alcuni casi anche 20 volte più elevate rispetto ai pazienti affetti da Alzheimer.

Particolarmente interessante è stata l’osservazione sui neonati prematuri: gli scienziati hanno notato che i loro livelli elevati di p-tau si mantenevano fino a 18 settimane dopo la nascita prima di iniziare a diminuire gradualmente fino ad allinearsi con quelli osservabili nei giovani adulti sani. Al contrario, gli alti livelli riscontrabili negli anziani erano associabili a un rischio maggiore per lo sviluppo della demenza tipo Alzheimer.

Un legame tra sviluppo cerebrale e p-tau?

Fernando Gonzalez-Ortiz, autore principale dello studio, ha sottolineato l’importanza della fosforilazione della tau nello sviluppo cerebrale sia nei bambini sia nelle persone anziane colpite dalla demenza. Secondo Gonzalez-Ortiz: «Il processo sembra avere ruoli opposti nelle diverse fasi della vita». Questo porta a interrogarsi su come alte concentrazioni possano essere gestite dal cervello giovane senza effetti tossici apparenti.

Tradizionalmente considerata un biomarcatore negativo per l’Alzheimer, ora emerge la necessità d’indagare ulteriormente le potenzialità fisiologiche della p-tau durante lo sviluppo neurologico infantile. Gli scienziati intendono esplorare se questi elevatissimi valori possano favorire la creazione delle connessioni sinaptiche essenziali per il corretto neurosviluppo o se possano essere indicatori precoci del rischio futuro per condizioni neurologiche come l’Alzheimer stesso.

Implicazioni future nella ricerca sull’Alzheimer

Questa scoperta apre nuove strade nella comprensione non solo dell’Alzheimer ma anche dello sviluppo cerebrale nei primi anni d’età. La sfida sarà quella d’indagare ulteriormente se ci siano correlazioni tra i picchi temporanei dei livelli plasmatici di p-tau nei neonati e eventuale predisposizione allo sviluppare patologie neurologiche nell’età adulta.

In conclusione si evidenzia quanto sia cruciale non limitarsi all’analisi isolata dei biomarcatori senza contestualizzarli nel quadro clinico complessivo del soggetto esaminato; questo approccio potrebbe rivelarsi fondamentale nella lotta contro le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer.