Claudio Spattini, pittore del ’900 e uomo colto, si forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove fu allievo di Giorgio Morandi, come si evince chiaramente da diverse sue opere. Numerose sono le correnti con le quali si confronta senza timore, partecipando a molteplici concorsi dai quali quasi sempre esce vincitore.
Attraverso i differenti contatti con altri artisti, non disdegna varie sperimentazioni, ma la sua ricerca trova fine nella pennellata libera di Paul Cézanne, dal quale è stato distintamente influenzato. Spattini non aderisce mai ad alcuna corrente del momento, in quanto questa scelta gli sarebbe costata la libertà di espressione: le correnti donavano grande visibilità e fama, ma di contro erano sostenute dalla politica e l’autore era tenuto ad attenersi ai dettami dichiarati nei vari Manifesti, sia per il contenuto sia per le scelte cromatiche e stilistiche. Spattini, quindi, sceglie consapevolmente la libertà alla fama.
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Sono le sue stesse opere a dichiarare i suoi intenti, senza bisogno di manifesto alcuno. Claudio Spattini, pur restando allievo di Morandi, poi si distacca e costruisce una sorta di “alfabeto” tramite l’uso arbitrario del colore, un linguaggio attraverso il quale dialoga con lo spettatore che, se attento, intuisce che non sono i particolari a dare vita all’opera, ma il colore stesso, usato in ogni occasione in modo diverso.
L’artista si interroga sulla vita e riesce a trasportare il suo pensiero sulla tela tramite la pennellata: lenta, più rapida e veloce, oppure allungata, o ancora ricolma di colore. Non sono da sottovalutare i toni che sceglie: si pensi alla “Natura morta nello studio”, ricolma di oggetti e frutti, con i limoni in evidenza – quella punta di giallo tipica di un limone pronto per essere colto.
Racconta la gioia anche durante gli anni di prigionia in Germania, quando riesce a ottenere materiale per dipingere. Davanti a un muro grigio e alla morte negli occhi, dipingeva la primavera in fiore con colori ben saldi nella mente, talmente intensi da inebriare l’ambiente intorno, arrivando a costruire una sorta di realtà parallela. Fortuna volle che il comandante del campo fosse un amante dell’arte e, incuriosito da quest’uomo dalle grandi capacità, gli chiese un ritratto. L’artista colse la sfida e brandì il suo pennello come il nemico brandiva il fucile: ne risultò un “lascia-passare” per sé e per il gruppo che era con lui.
Spattini fa ritorno a casa con un fardello di ricordi drammatici e devastanti, tanto da oscurare la sua arte – all’inizio incupita, ma poi, inaspettatamente, continua a creare vita, gioia, appassionante e suggestiva. Di fronte a un’opera come “Il Balcone fiorito”, l’occhio viene trasportato in un trepidio di colori provenienti dalle tante piante in fiore che rendono un balcone quasi fiabesco: si avverte perfino il profumo e, infine, una gioia apparentemente immotivata, la gioia pura. Quando un artista raggiunge un tale livello di empatia con lo spettatore, si può dire che “ha fatto centro”.
Il pennello per Claudio Spattini è stato prima di tutto la sua passione, l’arma che gli ha reso salva la vita, ma soprattutto il suo più caro amico, a cui poteva confidare i più reconditi segreti, fino all’ultimo giorno della sua lunga esistenza.