La recente sentenza della Corte di Cassazione italiana ha stabilito che le criptovalute, tra cui Bitcoin, sono da considerarsi beni mobili. Questa decisione rappresenta un cambiamento significativo nel panorama giuridico italiano e potrebbe avere ripercussioni importanti per chi opera nel settore delle criptovalute. La pronuncia chiarisce anche la responsabilità legale dei gestori di criptoattività e offre maggiore protezione ai possessori.
Il caso che ha portato alla sentenza
Il caso esaminato dalla Cassazione riguarda un trader che aveva affidato a un gestore delle criptovalute con l’incarico di investirle, trattenendo una commissione sui profitti generati. Tuttavia, il gestore non solo non ha investito i fondi ricevuti ma li ha anche trattenuti indebitamente, senza mai restituirli al legittimo proprietario. Questo comportamento ha portato a una condanna per appropriazione indebita e alla necessità di chiarire lo status giuridico delle criptovalute nell’ordinamento italiano.
La questione centrale era se le criptovalute potessero essere considerate beni mobili o meno. Fino ad ora, c’era stata incertezza su questo punto a causa della natura digitale delle criptoattività e della loro mancanza di materialità fisica. Tuttavia, la Corte ha deciso che la struttura intrinseca delle criptovalute consente loro di essere trattate come beni patrimoniali quantificabili e trasferibili.
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Le motivazioni della Cassazione
Nella sua decisione, la Suprema Corte ha respinto l’argomentazione difensiva secondo cui le entità digitali non potessero rientrare nella definizione giuridica dei beni mobili. I giudici hanno evidenziato come i dati informatici registrati sulla blockchain conferiscano alle criptovalute una “fisicità strutturale“. Questo aspetto è cruciale poiché permette alle criptoattività di essere oggetto di appropriazione indebita proprio come qualsiasi altro bene materiale.
Inoltre, la sentenza fa riferimento al regolamento europeo 2023/1114 e al decreto legislativo italiano 204/2024 che definiscono le criptoattività come “rappresentazioni digitali di valore“. Questa definizione è stata ormai accettata nell’ordinamento nazionale ed elimina ogni ambiguità riguardo alla natura patrimoniale del Bitcoin e simili.
Un ulteriore elemento importante riguarda il trasferimento del possesso delle criptovalute: anche quando queste vengono cedute a terzi per scopi d’investimento o gestione senza passare la proprietà effettiva all’altro soggetto, rimangono tutelate dalla legge italiana.
Implicazioni sul risarcimento danno
Un altro aspetto rilevante emerso dalla sentenza riguarda il risarcimento danno in caso d’inadempimento da parte del gestore. Nel caso specifico esaminato dalla Corte, il gestore aveva proposto un risarcimento pari a 5.000 euro per chiudere la questione; tuttavia, questo importo è stato considerato insufficiente rispetto al valore reale dei Bitcoin trattenuti dal momento dell’inadempimento, stimato in almeno 7.500 euro.
Questo principio sottolinea l’importanza della valutazione attenta del valore delle criptovalute durante situazioni problematiche legate alla loro gestione o investimento. La volatilità intrinseca dei mercati crypto rende necessario adottare criteri precisi nella determinazione del danno subito dai possessori in casi simili.
La decisione della Cassazione si inserisce quindi in un contesto normativo sempre più dinamico dove istituzioni europee e nazionali stanno cercando soluzioni ai vuoti regolamentari storicamente presenti nel settore crypto. Con questa pronuncia si segna un passo avanti verso una maggiore chiarezza normativa che impone responsabilizzazione agli operatori del mercato blockchain mentre offre protezioni più solide agli investitori nelle criptoattività.