Referendum del 8 e 9 giugno: il futuro dell’autonomia differenziata e le sfide politiche

Il referendum dell’8-9 giugno perde rilevanza dopo l’esclusione del quesito sull’autonomia, con sfide legate alla partecipazione e divisioni interne tra i partiti su temi di cittadinanza e lavoro.
Referendum del 8 e 9 giugno: il futuro dell'autonomia differenziata e le sfide politiche - Socialmedialife.it

Il referendum previsto per l’8 e 9 giugno ha subito un cambiamento significativo dopo la decisione della Corte Costituzionale di escludere il quesito sull’autonomia differenziata, sostenuto dalla Lega. Questo evento ha ridotto notevolmente la portata politica dell’appuntamento referendario, che ora si trova a dover affrontare una serie di sfide legate alla partecipazione degli elettori e alle dinamiche interne ai partiti.

Seguici su Google News

Ricevi i nostri aggiornamenti direttamente nel tuo feed di
notizie personalizzato

Seguici ora

Il calcolo del quorum: aspettative e realtà

Con l’assenza del quesito sull’autonomia, il referendum si concentra su cinque temi principali: uno riguardante la cittadinanza e quattro sul lavoro, in particolare contro le disposizioni residue del Jobs Act. Tuttavia, gli analisti politici sono scettici riguardo al raggiungimento del quorum necessario per validare il voto. Perché il referendum sia considerato valido è richiesta una partecipazione di oltre 25 milioni di elettori, pari al 50% più uno degli aventi diritto.

Le previsioni attuali indicano che un’affluenza intorno al 40% sarebbe considerata un successo politico dalle opposizioni e dalla Cgil, promotrice dell’iniziativa referendaria. Tuttavia, nel Partito Democratico e tra i sindacati si è abbassata l’asticella a dodici milioni di votanti. Questo numero corrisponde agli elettori che nelle ultime politiche hanno scelto i partiti della coalizione di centrodestra. La preoccupazione principale è quindi quella della partecipazione; se dovesse risultare bassa potrebbe rappresentare un campanello d’allarme per l’attuale governo guidato da Giorgia Meloni.

Le strategie della premier Meloni in vista delle politiche

Giorgia Meloni sta monitorando attentamente la situazione in vista delle prossime elezioni politiche. Un’affluenza significativa potrebbe spingerla a rivedere la legge elettorale nazionale per consolidare ulteriormente il vantaggio ottenuto nei sondaggi attuali. Tra le proposte c’è quella di eliminare l’incertezza dei collegi uninominali introducendo un premio di maggioranza del 55% per chi supera il 40% dei voti.

In questo contesto, Meloni ha annunciato che andrà al seggio senza ritirare le schede come forma indiretta d’invito all’astensione dal voto. Questa strategia mira ad evitare che i numeri raggiungano livelli critici senza correre rischi simili a quelli vissuti nel passato da altri leader politici italiani come Bettino Craxi nel ’91.

I partiti della coalizione governativa – Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – hanno già espresso posizioni favorevoli all’astensione dal voto sul referendum; solo Noi Moderati invita esplicitamente a votare contro tutti i quesiti proposti.

Le divisioni interne tra opposizione ed alleati

La situazione non è semplice nemmeno tra le forze opposte alla maggioranza governativa. All’interno dello schieramento progressista ci sono divergenze significative sulle modalità da adottare rispetto ai vari quesiti referendari. Il Movimento Cinque Stelle , ad esempio, ha lasciato libertà ai suoi membri riguardo al voto sulla proposta presentata da Riccardo Magi di Più Europa relativa alla cittadinanza italiana; tuttavia sostiene con fermezza quattro sì sui temi legati al lavoro.

Dall’altra parte dello spettro politico vi è Azione guidata da Carlo Calenda che appoggia solo il sì sul tema della cittadinanza ma non sugli altri aspetti lavorativi proposti dai referendum stessi.

All’interno dello stesso Pd ci sono tensioni evidenti: mentre Elly Schlein promuove una linea ufficiale favorevole ai cinque sì ai quesiti referendari insieme ad Alleanza Verdi Sinistra e Cgil, molti riformisti preferiscono limitarsi a due sì esprimendo tre no sui restanti punti relativi al Jobs Act.

Riformisti Pd: resistenza alle critiche passate

Una parte significativa dei dirigenti storici del Pd non intende rinnegare pubblicamente quanto fatto dieci anni fa durante la presidenza Renzi quando fu approvato il Jobs Act; nomi notabili come Paolo Gentiloni ed ex ministri quali Lorenzo Guerini rivendicano quell’epoca come cruciale nella storia recente italiana.

Anche Enrico Morando con LibertàEguale invita gli iscritti a concentrarsi esclusivamente sulla questione relativa alla cittadinanza evitando ogni altro coinvolgimento nei restanti quesiti referendari. Renzi stesso offre indicazioni miste: sostiene sì alla modifica sulla cittadinanza ma propone no su questioni relative ai licenziamenti o contratti precari lasciando libertà agli iscritti su altre tematiche sollevate dai referendum.

Change privacy settings
×